Socialità

Amore, amicizia, compassione, ostilità, volontà di potenza ecc.

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

3.

Chi ha veri amici non sa cosa sia la vera solitudine, anche se tutto il mondo intorno a lui gli fosse ostile -.

6.

E' difficile porre qualcuno in questa condizione di intrepida autoconoscenza, perché è impossibile insegnare l'amore: solo nell'amore infatti l'anima acquista, non solo quello sguardo chiaro, analizzatore e sprezzante per se stessa, ma anche quella brama di guardare oltre sé e cercare con tutte le energie un se stesso superiore, ancora nascosto da qualche parte.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

48.

Economia della bontà. - La bontà e l’amore, come le erbe e le forze più salutari nei rapporti umani, sono rinvenimenti così preziosi da far desiderare che di questi mezzi balsamici si usi con la maggior economia possibile: ciò tuttavia è impossibile. L’economia della bontà è il sogno dei più audaci utopisti.

49.

Benevolenza. - Tra le cose piccole, ma infinitamente frequenti e perciò stesso molto efficaci, alle quali la scienza dovrebbe prestare attenzione più che alle cose grandi e rare, bisogna annoverare anche la benevolenza: intendo quelle manifestazioni di sentimenti gentili nei contatti umani, quel sorriso degli occhi, quelle strette di mano, quella piacevolezza di cui normalmente si riveste ogni atto umano. Ogni maestro, ogni funzionaria aggiunge questo ingrediente a ciò che è il suo dovere; è l’esercizio costante di umanità, e per così dire le onde della sua luce, nelle quali tutto si sviluppa; soprattutto nella cerchia più ristretta, in seno alla famiglia, la vita prospera e fiorisce solo grazie a quella benevolenza.

L’indulgenza, la benignità, la gentilezza di cuore sono efflussi inesauribili dell’istinto altruistico, e hanno edificato la cultura molto più attivamente delle manifestazioni più note di esso, cui si dà il nome di compassione, caritatevolezza e dedizione. Invece si è soliti disdegnarle e, in effetti, in esse non c’è proprio molto di altruistico. La somma di queste piccole dosi è tuttavia imponente, e la loro forza complessiva è delle più vigorose. Allo stesso modo, nel mondo si trova molto più felicità di quanto occhi offuscati non ne vedano: se solo si calcola rettamente e non si dimenticano tutti i momenti piacevoli di cui è ricco ogni giorno di ogni vita umana, anche della più tormentata.

50.

Nella conversazione in società, tre quarti delle domande e tre quarti delle risposte si fanno e si danno per fare un po’ male all’interlocutore; per questo tanti uomini sono così assetati di società: essa dà loro il senso della propria forza. In tali innumerevoli e minuscole dosi in cui la cattiveria si manifesta, essa costituisce un forte «stimolante» della vita: così come la benevolenza, diffusa in ugual forma tra gli umani, è il rimedio sempre pronto.

98.

Piacere e istinto sociale. - Dai suoi rapporti con gli altri, l’uomo ricava un nuovo tipo di piacere, in aggiunta ai sentimenti di piacere che egli ricava da se stesso; in tal modo allarga notevolmente la sfera del sentimento di piacere in genere. Forse, una parte di quanto attiene a questa sfera egli l’ha ereditata già dagli animali, che provano un evidente piacere a giocare insieme, soprattutto le madri coi piccoli. Si pensi inoltre ai rapporti sessuali, che in vista del piacere rendono interessante a ogni maschio pressoché ogni femmina, e viceversa. Il sentimento di piacere che scaturisce dai rapporti umani rende in genere l’uomo migliore; la gioia comune, il piacere goduto insieme diventano maggiori e danno sicurezza all’individuo, lo rendono più buono, dissolvono la diffidenza, l’invidia: perché ci si sente bene e si vede che l’altro si sente bene allo stesso modo. Le uguali manifestazioni di piacere risvegliato la fantasia della simpatia, il sentimento di essere uguali: lo stesso provocano anche i dolori sofferti in comune, le tempeste, i pericoli, i nemici. Su questa base si costruisce poi la più antica alleanza, il cui senso sta nell’eliminare insieme e nel respingere la minaccia di un dolore per il bene di ogni singolo. Così dal piacere nasce l’istinto sociale.

231.

Umanità dell'amicizia e del magistero. - «Va' tu verso il mattino: così io andrò verso la sera» - sentire in tal modo è il più alto segno di umanità nei rapporti più stretti: senza questo sentimento, ogni rapporto di amicizia e di discepolato diverrà prima o poi ipocrisia.

236.

Due fonti della bontà. - Trattare tutti gli uomini con uguale benevolenza ed esser buoni senza far distinzione tra le persone, può derivare tanto da un profondo disprezzo per gli uomini quanto da un profondo amore per essi.

241.

La buona amicizia. - La buona amicizia nasce quando si stima molto l'altro, e cioè più di se stessi, quando parimenti lo si ama, ma non quanto se stessi, e quando infine, per facilitare i rapporti, vi si sa aggiungere la delicata sfumatura e lanugine dell'intimità, astenendosi tuttavia saggiamente dall'intimità vera e propria e dalla confusione fra tu e io.


Volume II

27.

Spiegazione della gioia per il male altrui. La gioia per il male altrui nasce da ciò, che ognuno, sotto più aspetti a lui ben noti, non sta bene, ha preoccupazione o pentimento o dolore: il danno che colpisce l'altro rende quest'ultimo uguale a lui, riconcilia la sua invidia.

- Se egli stesso invece sta proprio bene, accumula tuttavia nella sua coscienza l'infelicità del prossimo come un capitale per impiegarlo, nel caso di una sopravveniente infelicità propria, contro di essa: anche così egli prova «gioia per il male altrui». I sentimenti rivolti all'uguaglianza proiettano dunque il loro criterio nel campo della fortuna e del caso: gioia per il male altrui è l'espressione più comune per la vittoria e il ristabilimento dell'uguaglianza, anche nel superiore ordinamento del mondo. Solo da quando l'uomo ha imparato a vedere negli altri uomini suoi uguali, ossia dalla fondazione della società, esiste gioia per il male altrui.

Aurora (1881)

112.

Per la storia naturale del dovere e del diritto. - I nostri doveri sono i diritti di altri su di noi. Tramite cosa essi li hanno acquisiti? Tramite il ritenerci capaci di stipular contratti e ricever retribuzioni, il valutarci eguali e simili a loro, tramite quindi l'affidare qualcosa a noi, l'educarci, il riprenderci, il sostenerci. Noi adempiamo il nostro dovere - ciò significa: noi giustifichiamo quell'immagine di un nostro potere, per il quale tutto ci fu tributato, noi rendiamo nella misura in cui ci fu dato. Così è il nostro orgoglio che ci ordina di compiere il nostro dovere, - noi vogliamo restaurare la nostra sovranità, quando, a ciò che altri fecero per noi, contrapponiamo quel che facciamo per loro, - essi infatti hanno con ciò invaso la sfera del nostro potere e continuerebbero a tenere in essa le loro mani, se noi, con il «dovere», non effettuassimo un contraccambio, vale a dire non invadessimo la loro sfera di potere.

Solo a qualcosa che sta in nostro potere si possono riferire i diritti degli altri; sarebbe irragionevole se volessero da noi qualcosa che non appartiene a noi stessi. Più precisamente si deve dire: soltanto a ciò che essi pensano sia in nostro potere, presupponendo che sia la stessa cosa che noi pensiamo essere in nostro potere. Da entrambi i lati potrebbe facilmente esserci lo stesso errore; il sentimento del dovere dipende dal fatto che riguardo all'ambito del nostro potere abbiamo la stessa fede degli altri; cioè dal fatto che promettiamo determinate cose, che possiamo obbligarci ad esse («libertà del volere»).

- I miei diritti: questa è quella parte del mio potere che gli altri non solo mi hanno accordato, ma nella quale mi vogliono mantenere. Com'è che questi altri pervengono a ciò? In primo luogo, attraverso la loro saggezza e timore e cautela: sia che si aspettino in cambio qualcosa di simile da parte nostra (tutela dei loro diritti), sia che ritengano pericoloso o inopportuno uno scontro con noi, sia che vedano uno svantaggio per se stessi in ogni diminuzione della nostra forza, poiché allora noi saremmo inadatti ad allearci con loro in opposizione ad una terza potenza ostile. In secondo luogo, mediante donazione e cessione. In questo caso gli altri hanno abbastanza, e più che abbastanza, potenza, per poterne cedere una parte e per poter garantire la parte ceduta a colui cui ne hanno fatto dono: in ciò viene presupposto un minimo sentimento di potenza in colui che si è lasciato fare questo dono. Così nascono i diritti: come riconosciuti e garantiti gradi di potenza.

Se i rapporti di potere si spostano in modo essenziale, allora alcuni diritti decadono e se ne formano dei nuovi, - come mostra il diritto internazionale nel suo continuo trapassare e nascere di nuovo. Se la nostra potenza diminuisce in modo essenziale, allora muta il sentimento di coloro che finora garantivano il nostro diritto; essi valutano se sono in grado di riportarci all'antico pieno possesso, - se non se ne sentono capaci, allora, a partire da quel momento, negano i nostri «diritti». Altrettanto, se la nostra potenza si accresce in modo considerevole, muta il sentimento di coloro che fino a quel momento lo riconoscevano e del cui riconoscimento noi ora non abbiamo più bisogno: essi tenteranno certo di ridurre questa stessa alla misura di un tempo, vorranno intromettersi e richiamarsi in ciò alloro «dovere» - ma questo sarà soltanto un inutile spreco di parole. Dove domina il diritto, là viene conservato un determinato stato e grado di potenza e impedita una diminuzione e un accrescimento.

Il diritto di altri è la concessione fatta dal nostro sentimento di potenza al sentimento di potenza di questi altri. Se il nostro potere si mostra profondamente scosso e infranto, allora cessano i nostri diritti: di contro, se noi siamo divenuti molto più potenti, cessano i diritti degli altri nei nostri confronti, come noi fino a questo momento glieli avevamo accordati.

- L'«uomo giusto» ha bisogno continuamente della sottile sensibilità di una bilancia: per i gradi di potenza e di diritto che, per l'effimera natura delle umane cose, solo per breve tempo stanno sospesi in equilibrio sulla bilancia, il più delle volte però scendono in basso o salgono in alto: essere giusti di conseguenza è difficile e richiede molto esercizio, molta buona volontà e uno spirito assai ricco e assai buono. -

132.

Oggi sembra che ad ognuno faccia bene sentir dire che la società sarebbe sulla via di adeguare il bisogno del singolo a quelli generali, e che la felicità e insieme il sacrificio del singolo starebbero nel fatto di sentirsi un utile membro e strumento del tutto: solo che attualmente si è ancora molto indecisi sul dove sia da cercare questo tutto, se in uno Stato già esistente o da fondare, o nella nazione o in una fratellanza dei popoli, oppure in piccole nuove comunità economiche. Intorno a questo fatto, oggi, v'è un gran riflettere, dubitare, lottare, molta agitazione e molta passione; ma meravigliosa e armoniosa è la concordia nella pretesa che l'ego debba negare se stesso, fino a che, nella forma dell'adeguamento al tutto, non riceva ancora di nuovo la sua solida cerchia di diritti e di doveri, - fino a che non divenga qualcosa di completamente nuovo e diverso.

Si vuole nientemeno che - lo si confessi o no - una radicale trasformazione, anzi un indebolimento e un annullamento dell'individuo: non ci si stancherà di enumerare e accusare tutto ciò che, in quella che fino ad oggi è stata la forma dell'esistenza individuale, v'è di cattivo ed ostile, di dissipatore, di dispendioso, di lussuoso, con la speranza di amministrare e governare più a buon mercato, senza rischi, in modo più equilibrato e unitario, purché vi siano ancora dei grandi corpi con le loro membra. Viene avvertito come buono tutto ciò che, in qualche modo, corrisponde a questo istinto a formare i corpi e le loro membra, e ai suoi istinti ausiliari, questa è la fondamentale corrente morale del nostro tempo; in tutto questo, sentire comune e sentire sociale agiscono l'uno sull'altro in un gioco reciproco.

133.

«Non pensare più a se stessi». - Ci si rifletta ben a fondo: perché ci tuffiamo dietro a uno che dinanzi a noi cade in acqua, sebbene non si nutra alcun sentimento particolare nei suoi confronti? Per compassione: in tal caso si pensa soltanto agli altri, - risponde la mancanza di riflessione. Perché si prova dolore e disagio per uno che sputa sangue, mentre si è addirittura mal disposti e ostili nei suoi confronti? Per compassione: in questo caso, appunto, non si pensa più a sé, - dice la stessa mancanza di riflessione. La verità è che nella compassione - in ciò, intendo, che in modo fuorviante si è soliti chiamare compassione - noi certo non pensiamo più in modo cosciente a noi, ma inconsciamente ci pensiamo in un modo assai forte, come quando, se ci scivola un piede, facciamo inconsciamente, ora a favore nostro, i contromovimenti più opportuni e in ciò usiamo evidentemente tutto il nostro giudizio. La disgrazia altrui ci offende, ci convincerebbe della nostra impotenza, forse della nostra codardia, se non gli prestassimo aiuto. Ovvero, essa reca già in sé una diminuzione del nostro onore dinanzi agli altri o dinanzi a noi stessi. Oppure nella disgrazia e nella sofferenza di un altro v'è un indice di pericolo per noi; e queste, già come segni dello stato di pericolo in cui l'uomo si trova e della sua fragilità, possono provocare in noi un senso di pena. Noi respingiamo questa sorta di pena e di offesa e la compensiamo con un'azione compassionevole; in essa può esserci una sottile legittima difesa o anche una vendetta.

Che al fondo si pensi molto a noi stessi, lo si può indovinare dalla decisione che prendiamo in tutti quei casi in cui, alla vista del sofferente, dell'indigente, di chi è nell'afflizione, possiamo prendere un'altra strada: a non fare così ci risolviamo quando possiamo accostarci ad essi come coloro che sono più potenti, come i soccorritori, quando siamo sicuri del plauso altrui; quando vogliamo sentire qualcosa di antitetico alla nostra felicità o anche quando, mediante quella vista, vogliamo strapparci alla noia. E' fuorviante chiamare con-passione la sofferenza che ci viene arrecata ad una tale vista e che può essere di assai diversi tipi, giacché in tutte le circostanze si dà una sofferenza dalla quale colui che soffre dinanzi a noi è libero: questa è una sofferenza che appartiene a noi, come appartiene a lui la sua. Ma è soltanto questa sofferenza personale che rimuoviamo da noi quando compiamo delle azioni pietose. Senz'altro noi non facciamo mai qualcosa del genere per un unico motivo: se è certo che noi in questo ci vogliamo liberare di un dolore, è altrettanto certo che in una tale azione noi consentiamo ad un istinto di piacere, - piacere che nasce alla vista di qualcosa di antitetico alla nostra situazione, all'idea di poter dare aiuto, solo che lo si voglia, al pensiero della lode e della riconoscenza nel caso che questo aiuto venga dato; piacere che ha origine nell'attività stessa del prestare aiuto, in quanto l'atto riesce e in sé reca diletto, a chi lo esegue, come qualcosa che si realizza gradualmente, ma in particolare nel sentire che la nostra azione mette fine ad un'ingiustizia che suscita sdegno (e già lo sfogare il proprio sdegno dà sollievo). Tutto ciò, incluso anche qualcos'altro di molto più sottile, è «compassione»: - come goffo piomba qui il linguaggio, con una sola parola, su una realtà così polifonica!

- Che il compatire sia, invece, della stessa specie del patire, alla cui vista esso ha origine, o che abbia una comprensione particolarmente fine e penetrante per quest'ultimo, entrambe queste cose sono contraddette dall'esperienza, e chi ha magnificato la compassione proprio sotto questi due riguardi mancava appunto, in campo morale, dell'esperienza sufficiente. Questo è il mio dubbio circa tutte quelle incredibili cose che Schopenhauer riferisce sulla compassione: egli, che con ciò vorrebbe condurci a credere alla sua grande novità, che la compassione cioè - appunto quella compassione da lui così difettosamente osservata e così mal descritta - sia la fonte di ogni azione morale, sia passata che futura, - e proprio in grazia di quella facoltà che lui le ha soltanto fantasiosamente attribuito.

Cosa, in fondo, distingue gli uomini compassionevoli da quelli privi di compassione? Soprattutto - per darne anche qui solo un abbozzo - il fatto che questi ultimi non hanno l'eccitabile fantasia della paura, la sottile capacità di fiutare il pericolo; inoltre la loro vanità non è offesa così facilmente quando accade qualcosa che potrebbero impedire (la prudenza che deriva dall'orgoglio impone loro di non mischiarsi inutilmente in estranee faccende, anzi da parte loro amano che ognuno sia di aiuto a se stesso e giochi le proprie carte). Inoltre essi sono più avvezzi dei compassionevoli a sopportare i dolori; e non appare loro così ingiusto che altri soffrano, dal momento che hanno sofferto loro stessi.

Inoltre per loro è una condizione penosa quella di avere il cuore tenero, come per i compassionevoli lo è quella di essere stoicamente impassibili; coprono questo atteggiamento con parole di discredito, credendo che in esso sia in pericolo la loro virilità e il loro freddo coraggio, - di fronte agli altri nascondono le lacrime e se le asciugano indignati con se stessi. Rispetto ai compassionevoli sono un tipo diverso di egoisti; - ma chiamare loro malvagi per eccellenza, e buoni i compassionevoli, non è nient'altro che una moda morale, che ha fatto il suo tempo: come pure ha avuto il suo tempo la moda opposta, e che lungo tempo!

134.

Fino a che punto ci si deve guardare dalla compassione. - La compassione, in quanto effettivamente crea una sofferenza - e questo sia qui il nostro unico punto di vista -, è una debolezza, come lo è ogni perdersi in una passione dannosa. Essa aumenta la sofferenza nel mondo: pur se, a seguito della compassione, una sofferenza può, in via mediata, essere qua e là ridotta o eliminata, questa occasionale e nel complesso insignificante conseguenza non può tuttavia essere utilizzata per giustificare la sua essenza, che, come si è detto, è dannosa. Posto che essa anche per un solo giorno fosse l'atteggiamento dominante, allora l'umanità perirebbe subito ad opera sua.

In sé, essa ha così pochi caratteri positivi, come ne può avere un qualsiasi altro istinto: solo laddove viene richiesta e lodata - e questo accade solo quando non si comprende quanto in essa v'è di dannoso, ma vi si scopre una fonte di piacere - annette a sé la buona coscienza; solo allora ci si abbandona volentieri ad essa e non si teme il suo manifestarsi. In altre circostanze, in cui si comprende la sua dannosità, è considerata una debolezza: oppure, come presso i Greci, come una morbosa passione periodica, cui si potrebbe togliere la sua pericolosità mediante volontari sfoghi periodici.

- Chi una volta, a mo' di esperimento, si abbandoni, per un certo periodo di tempo, a tutte le occasioni di compassione nella vita pratica e si ponga sempre dinanzi all'anima tutta la miseria che può abbracciare nel suo ambiente, costui diverrà irrimediabilmente malato e malinconico. Chi invece voglia, come medico, servire in un qualsiasi senso all'umanità, dovrà essere assai prudente di fronte a questo sentimento, - esso lo paralizza in tutti i momenti decisivi, impedisce il suo sapere e lega la sua soccorrevole, delicata mano.

135.

L'essere compatiti. - Tra i selvaggi si pensa con morale raccapriccio all'essere compatiti: questo vuol dire esser privi di ogni virtù. Accordare compassione ha lo stesso significato che disprezzare: un essere spregevole non lo si vuole veder soffrire, ciò non procura alcun godimento. Al contrario, veder soffrire un nemico che si riconosce di pari fierezza e che in mezzo alle torture non sacrifica il proprio orgoglio, e in generale veder soffrire ogni essere che non intende invocar pietà, cioè non è disposto a subire la più ignominiosa e profonda umiliazione, - ciò costituisce il massimo dei godimenti, ed in questo l'anima del selvaggio si innalza all'ammirazione: egli alla fine uccide un tal valoroso, se ciò è in suo potere, e così tributa a lui, all'indomito, l'estremo onore; se egli si fosse lamentato, se l'espressione del freddo sarcasmo avesse abbandonato il suo volto, se si fosse mostrato spregevole, - allora egli sarebbe potuto restare in vita, come un cane, - non avrebbe più eccitato la fierezza di chi lo sta a guardare e al posto dell'ammirazione sarebbe subentrata la pietà.

136.

La felicità nella compassione. - Se, come gli Indiani, si pone a meta di tutta l'attività intellettuale la conoscenza dell'umana miseria e attraverso molte generazioni dello spirito si rimane fedeli a un tale terribile proposito, allora, agli occhi di tali uomini del pessimismo ereditario, la compassione finisce per ricevere un nuovo valore, in quanto potenza conservatrice della vita, tesa a rendere sopportabile l'esistenza, anche se questa, dinanzi alla nausea e all'orrore che suscita, sembra meriti di esser gettata via. La compassione diviene un antidoto contro il suicidio, in quanto è un sentimento che contiene piacere e che, a piccole dosi, fa gustare una certa superiorità: essa ci distoglie da noi stessi, ci ricolma il cuore, discaccia la paura e l'irrigidimento, stimola a parlare, a lamentarsi e ad agire, - è, relativamente, una gioia, se la si commisura alla miseria della conoscenza che da tutte le parti spinge l'individuo nell'angustia e nell'oscurità e gli mozza il respiro. Mentre la gioia, qualunque essa sia, dà aria, luce e libertà di movimento.

142.

Comunione di sentimenti. - Per comprendere l'altro, vale a dire, per riprodurre in noi il suo sentimento, risaliamo spesso, a dire il vero, al motivo del suo sentimento determinato in questo o in quel modo, e domandiamo per esempio: perché costui è triste? - per poi venir noi stessi rattristati a causa dello stesso motivo; molto più di frequente però accade di tralasciare questo fatto e di generare in noi quel sentimento secondo gli affetti che esso esercita e mostra nell'altro, riproducendo sul nostro corpo (almeno fino a raggiungere una certa somiglianza del gioco dei muscoli e dell'innervazione) l'espressione dei suoi occhi, della sua voce, della sua andatura, del suo portamento (o addirittura il loro riflesso in parola, in pittura, in musica). Allora, in conseguenza di un'antica associazione di movimento e sensazione, che è esercitata a procedere all'indietro e in avanti, si genera in noi un sentimento analogo…

- Se ci interroghiamo sul modo in cui ci è divenuta così familiare l'imitazione dei sentimenti altrui, non rimane alcun dubbio circa la risposta: l'uomo, essendo la più pavida di tutte le creature, in virtù della sua delicata e fragile natura, ha avuto nella sua pavidità la maestra di quella comunione di sentimenti, di quella rapida comprensione per il sentimento altrui (anche per quello della bestia). Per lunghi millenni egli vide un pericolo in tutto ciò che era estraneo e animato: subito, ad una tale vista, imitò l'espressione dei tratti e dell'atteggiamento e trasse le sue conclusioni sul genere di cattiva intenzione dietro a quei tratti e a quell'atteggiamento. Questo interpretare tutti i movimenti e le linee in base ad intenzioni, l'uomo l'ha adoperato addirittura sulla natura delle cose inanimate - nell'illusione che non esista niente di inanimato: credo che qui abbia la sua origine tutto ciò che chiamiamo sentimento della natura, allo spettacolo del cielo, dei campi, delle rocce, dei boschi, delle tempeste, delle stelle, del mare, del paesaggio, della primavera.

- Senza l'antichissima consuetudine del timore di vedere in tutto questo un secondo significato riposto, oggi non proveremmo alcuna gioia nella natura, come non la proveremmo nell'uomo e nella bestia, senza quella maestra del comprendere che è la paura. La gioia e la piacevole meraviglia, e infine il senso del ridicolo, sono infatti i figli tardivi della comunione dei sentimenti e gli assai più giovani fratelli della paura. - La capacità della rapida comprensione - che quindi ha la sua base nella capacità di una rapida dissimulazione - diminuisce negli uomini e nei popoli fieri e padroni di sé, poiché essi hanno meno paura: mentre tutte le specie di comprensione e di dissimulazione sono di casa tra i popoli timorosi: qui si trova anche la vera patria delle arti imitative e della intelligenza superiore.

Se partendo da una teoria della comunione dei sentimenti, quale quella qui proposta, penso alla teoria, proprio oggi amata e consacrata, di un mistico processo in virtù del quale la compassione di due esseri ne fa uno solo e in tal modo rende possibile all'uno l'immediata comprensione dell'altro: se ripenso che un cervello così lucido come quello di Schopenhauer si compiacque di esaltate e indegne chiacchiere inutili come queste e trapiantò ancora il suo compiacimento in lucidi e semilucidi cervelli: non riesco a por fine allo stupore e alla commiserazione. Come deve essere grande il nostro piacere per un'incomprensibile assurdità! Come pur sempre è vicino al folle tutto l'uomo, quando presta ascolto ai suoi segreti desideri intellettuali!

La gaia scienza (1882)

14. Che cosa è detto amore.

Avidità e amore: come ci sembrano diverse queste due parole! ― Eppure potrebbe essere lo stesso istinto cui sono stati attribuiti due nomi diversi, una volta insultato dal punto di vista di chi già ha, in cui l'istinto si è in qualche modo placato e teme adesso per i propri «averi»; un'altra dal punto di vista di chi è insoddisfatto e assetato, e quindi magnificato come «buono». Il nostro amore per il prossimo ― non è forse un impulso verso una nuova proprietà? E così il nostro amore per la sapienza, per la verità e comunque ogni impulso verso ciò che è nuovo?

A poco a poco ci stanchiamo delle cose vecchie, del cui possesso siamo certi, e tendiamo nuovamente le mani; persino il più bel paesaggio, dopo averci vissuto tre mesi, non è più sicuro del nostro amore, e una certa costa lontana suscita la nostra avidità: il bene posseduto è solitamente impoverito dal fatto di possederlo. Vogliamo continuare a piacerci, e quindi dobbiamo continuare a trasformare qualcosa dentro noi stessi ― cioè possedere qualcosa di nuovo. Stancarci di ciò che possediamo significa appunto stancarci di noi stessi. (Si può anche soffrire perché si ha troppo ― anche il desiderio di gettare via, di condividere, può meritarsi il nobile nome di «amore».)

Se vediamo soffrire qualcuno, sfruttiamo volentieri l'opportunità che ci è offerta di impossessarci di lui; è questo che fa ad esempio il compassionevole benefattore, che per l'appunto chiama «amore» il desiderio che l'altro ha suscitato in lui e ne prova piacere come per una conquista che gli ammicchi da lontano.

È però nell'amore fra i due sessi che l'amore si tradisce al meglio come impulso verso la proprietà: chi ama vuole il possesso esclusivo e incondizionato della persona da lui desiderata, vuole avere un potere altrettanto incondizionato sulla sua anima come sul suo corpo, vuole essere l'unica persona che l'altro ama e dimorare e dominare nell'anima dell'altro come quanto vi è di più alto e di più degno di essere desiderato. Se si pensa al fatto che questo non è altro che escludere tutto il mondo da un bene, una felicità e un piacere preziosi; se si pensa al fatto che chi ama procede a impoverire e privare di qualcosa tutti i suoi concorrenti e vorrebbe diventare il drago del suo aureo tesoro, il più spietato e il più egoista di tutti i «conquistatori» e di tutti gli sfruttatori; se si pensa infine che a colui che ama il resto del mondo sembra indifferente, pallido, privo di valore ed egli è pronto a fare qualsiasi sacrificio per distruggere ogni ordine e ogni interesse per lo stesso; allora ci si meraviglia davvero che questa selvaggia avidità e ingiustizia dell'amore fra i due sessi sia stata tanto magnificata e divinizzata, come invece è accaduto in tutte le epoche, che proprio da questo amore sia stato tratto il concetto di amore contrapposto a quello di egoismo, quanto invece di questo egoismo esso è proprio l'espressione più spregiudicata.

Sono stati probabilmente coloro che non possedevano niente e gli avidi ― sempre troppi ― a introdurre questo uso della parola. Coloro invece che in questo campo hanno sempre posseduto molto e riscosso molte soddisfazioni, hanno occasionalmente lasciato cadere qualche parola a proposito del «demone delirante», come il più amabile e amato di tutti gli Ateniesi, Sofocle: ma di questi viziosi, che sono pur sempre stati i suoi beniamini, Eros si è preso gioco in ogni epoca.

Ogni tanto si dà, sulla terra, una specie di prosecuzione dell'amore, nella quale quell'avido desiderio che due persone nutrivano l'una per l'altra si trasforma in una nuova brama e avidità, una sete comune e più elevata verso un ideale che le sovrasta entrambe. Ma chi conosce questo amore? Chi lo ha vissuto? Il suo vero nome è amicizia.

16. Al di là del ponticello.

Nei rapporti con quelle persone che si vergognano dei propri sentimenti, occorre saper simulare: esse provano un odio improvviso contro chi le coglie in un momento di particolare tenerezza o generosità, come se avessimo scoperto un segreto. Se in tali momenti si vuole far loro del bene, basta farle ridere o dire loro una cattiveria fredda e scherzosa: i loro sentimenti si raffreddano ed esse sono nuovamente padrone di sé. Ma vi sto dando la morale prima della storia.

Una volta, nella nostra vita, siamo stati così vicini che niente pareva poter turbare la nostra amicizia, la nostra fratellanza, come se tra noi ci fosse soltanto un breve ponticello. Una volta volevi salirci, e io ti domandai: «Vuoi venire da me, al di là del ponticello?». Ma non volesti più, e la seconda volta che te lo chiesi tacesti. Da allora tra noi si sono frapposte montagne e fiumi impetuosi e tutto ciò che può separare e rendere estraneo; se anche volessimo avvicinarci, non lo potremmo più. Se però ripensi a quel ponticello, non hai più parole ― soltanto singhiozzi e meraviglia.

61. In onore dell'amicizia.

Il fatto che il sentimento dell'amicizia fosse tenuto in altissima considerazione dagli antichi, addirittura più importante del più rinomato orgoglio dell'uomo più autosufficiente e saggio, risulta magnificamente dalla storia di quel re macedone che donò un talento a un filosofo ateniese che teneva in dispregio il mondo e lo riebbe indietro tal quale. «Come», disse il re, «ma non ha nemmeno un amico?» E con questo voleva dire: «Io rispetto l'orgoglio di questo uomo saggio e indipendente, ma rispetterei ancora di più la sua umanità se, in lui, l'amico avesse avuto la meglio sul suo orgoglio. Questo filosofo si è umiliato davanti a me, perché mi ha dimostrato che non conosce uno dei due sentimenti più elevati che esistano - e proprio quello superiore!».

279. Amicizia stellare.

Eravamo amici e siamo divenuti estranei. Ma è giusto così, e non vogliamo né dissimularcelo né tenercelo oscuro, come se dovessimo vergognarcene. Siamo due navi, ciascuna delle quali ha la sua meta e la sua traiettoria; potremmo certo incrociarci e celebrare una festa insieme, come abbiamo fatto, - e poi le due brave navi potrebbero starsene tranquillamente in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, cosicché si potrebbe pensare che siano giunte alla meta e che avessero una meta comune. Ma poi l'onnipotente violenza dei nostri compiti ci separerebbe ancora, spingendoci in mari e sotto soli diversi, e forse non ci rivedremmo mai più: oppure ci rivedremmo, - ma senza riconoscerci, perché mari e soli diversi ci avrebbero cambiato!

Il fatto che dobbiamo divenire estranei è la legge sopra di noi: ma proprio per questo dobbiamo divenire anche più degni di noi! Proprio per questo il pensiero della nostra amicizia di un tempo si fa più sacro! Esiste, probabilmente, una curva, una traiettoria stellare immensa e invisibile di cui le nostre strade e mete tanto diverse possono costituire piccoli tratti: eleviamoci a questo pensiero! Ma la nostra vita è troppo breve e la nostra vista troppo scarsa perché possiamo essere più che amici nel senso di quella sublime possibilità. Crediamo dunque nella nostra amicizia stellare anche se sulla terra, dovessimo essere nemici.

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte prima - I discorsi di Zarathustra

Del leggere e dello scrivere

E’ vero: amiamo la vita non perché siamo abituati alla vita, ma perché siamo abituati ad amare.

C'è sempre un po' di follia nell'amore. Ma c'è sempre un po’ di ragione nella follia.

Dell'amico

«Uno è sempre di troppo intorno a me» così pensa l'eremita. «Uno alla volta con l'andar del tempo fa due!.»

Io e Me sono sempre troppo assorbiti dalla conversazione: come resistere se non ci fosse un amico?

Per l'eremita l'amico è sempre il terzo: il terzo è il sughero che impedisce che la conversazione dei due scenda nel profondo.

Ah, ci sono troppe profondità per tutti gli eremiti. Per questo essi bramano un amico e la sua vetta.

La nostra fede negli altri tradisce ciò che ameremmo credere di noi stessi. La nostra brama di un amico è quella che ci tradisce.

E spesso con l'amore si vuole passare oltre l'invidia. E spesso si attacca e ci si fa un nemico per nascondere che si è attaccabili.

«Sii almeno il mio nemico!» così parla la vera reverenza, che non osa chiedere amicizia.

Se si vuol avere un amico, bisogna essere anche disposti per lui a muover guerra: e per muover guerra si deve poter essere nemico.

Nel proprio amico si deve onorare anche il nemico. Puoi accostarti al tuo amico senza passare dalla sua parte?

Nel proprio amico bisogna avere il proprio miglior nemico. Devi essergli più che mai vicino col cuore quando lo avversi.

Non vuoi portare abiti davanti al tuo amico? Dev'essere un onore per il tuo amico che tu ti dia a lui come sei? Ma lui ti manda al diavolo per questo!

Chi non fa più mistero di sé, rivolta: avete tanti motivi per temere la nudità! Certo, se foste dèi, allora potreste vergognarvi dei vostri abiti!

Per il tuo amico non ti farai mai bello abbastanza: poiché devi essere per lui freccia e anelito al superuomo.

Vedesti già il tuo amico dormire, per sapere che aspetto abbia? Che cos'è altrimenti il volto del tuo amico? E il tuo viso, riflesso in uno specchio rozzo e imperfetto.

Vedesti già il tuo amico dormire? Non ti spaventasti che il tuo amico avesse quell'aspetto? O, amico mio, l'uomo è qualcosa che deve essere superato.

Nell'indovinare e nel tacere l'amico dev'essere maestro: non tutto devi voler vedere. Il tuo sogno ti deve rivelare ciò che il tuo amico fa da sveglio.

Un indovinare sia la tua compassione: fa di sapere prima se il tuo amico vuole compassione. Forse egli di te ama l'occhio fermo e lo sguardo dell'eternità.

La compassione per l'amico si celi sotto una dura buccia: mordendo devi romperti un dente. Così avrà la sua finezza e la sua dolcezza.

Sei aria pura e solitudine e pane e medicina per il tuo amico? C'è chi non sa spezzare le proprie catene, eppure per l'amico è un liberatore.

Sei uno schiavo? Allora non puoi essere amico. Sei un tiranno? Allora non puoi avere amici.

Troppo a lungo nella donna è stato nascosto uno schiavo e un tiranno. Per questo la donna non è ancora capace di amicizia: essa conosce solo l'amore.

Nell'amore della donna c'è ingiustizia e cecità verso tutto ciò che essa non ama. E anche quando l'amore della donna è sapiente, accanto alla luce c'è pur sempre aggressione e folgore e notte.

La donna non è ancora capace di amicizia: gatti sono pur sempre le donne, e uccelli. O, nel migliore dei casi, vacche.

La donna non è ancora capace di amicizia. Ma ditemi, voi uomini, chi di voi è capace di amicizia?

Oh, la vostra povertà, uomini, e l'avarizia della vostra anima! Quel che voi date all'amico io lo darò al mio nemico e non mi troverò più povero.

C'è cameratismo: potesse esservi amicizia!

Così parlò Zarathustra.

Parte seconda

Dei compassionevoli

Se poi hai un amico che soffre, sii per il suo soffrire un luogo di riposo, ma al tempo stesso un letto duro, un letto da campo: così più che in un altro modo gli gioverai.

E se un amico ti fa qualcosa di male, digli: «Ti perdono quel che mi hai fatto; ma che tu l'abbia fatto a te, come potere perdonarlo! ».

Così parla ogni grande amore: esso supera anche il perdono e la compassione.

Si deve tener saldo il proprio cuore; se si lascia andare, presto si perde anche la testa!

Ah, dove nel mondo accaddero stoltezze maggiori che presso i compassionevoli? E che cosa nel mondo causò più sofferenza delle stoltezze del compassionevole?

Guai a chi ama e non può collocarsi più in alto della propria compassione!

Così mi disse una volta il diavolo: «Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini».

E poco tempo fa gli sentii dire questa parola: «Dio è morto; Dio è morto della sua compassione per gli uomini».

Così guardatevi dalla compassione: di là s'aduna sugli uomini una nube cupa! In verità me ne intendo di segni meteorologici!

Ma ritenete anche questa parola: ogni grande amore è al di sopra di tutta la sua compassione: perché vuole ancora creare la cosa amata!

«Offro me stesso al mio amore, al mio prossimo come a me» così devono dire tutti i creatori.

Tutti i creatori sono duri.

Così parlò Zarathustra.

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

89.

Gli uomini hanno sempre frainteso l'amore: credono di essere disinteressati, volendo il beneficio di un altro essere, spesso contro il proprio interesse, ma vogliono per questo possedere quell'altro essere...

In altri casi l'amore è un più raffinato parassitismo, un pericoloso e irrispettoso annidarsi di un'anima in un'altra anima a volte anche nella carne... ahimè, a spese dell'«ospite»!

Quanti benefici sacrifica l'uomo, come è poco «interessato»! Ogni suo affetto e ogni passione vuole aver ragione e come è lontano dalla saggia utilità dell'interesse personale l'affetto!

Non si vuole la propria «felicità»; si deve essere Inglesi per credere che l'uomo cerca sempre il proprio tornaconto; i nostri desideri vogliono impossessarsi delle cose con una lunga passione la loro forza accumulata cerca le resistenze.

204.

Questo è noioso nell'amore: che è un crimine in cui non si può fare a meno di avere un complice.

207.

Che cos'è l'amore? Un bisogno di uscire da se stessi. L'uomo è un animal adorateur. Adorer c'est se sacrifier et se prostituer. Aussi tout amour est-il prostitution.

209.

Nell'amore l'entente cordiale consegue da un fraintendimento. Ce malentendu c'est le plaisir. Il baratro rimane insuperabile.

Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è (1888)

Perché sono così saggio

4.

Rimprovero alle anime compassionevoli il fatto che facilmente vien loro meno il pudore, il rispetto, il delicato senso delle distanze, che la compassione prende, in un baleno, il sentore dalla plebe e assomiglia, fino a confondervisi, alle cattive maniere, che le mani compassionevoli, in alcune circostanze, possono avere un effetto addirittura devastatore in un grande destino, in una solitudine ferita, nel privilegio di una grave colpa. Io annovero il superamento della compassione tra le virtù aristocratiche.

Il caso Wagner. Un problema di musicisti (1888)

Lettera da Torino del maggio 1888

2.

Infine l'amore, l'amore ritradotto nella natura! Non l'amore di una «vergine superiore»! Non il sentimentalismo alla Senta! Bensì l'amore come fato, come fatalità, cinico, innocente, crudele e appunto in ciò natura! L'amore che nei suoi mezzi è la guerra, nel suo fondo l'odio mortale fra i sessi!

Non conosco altro caso in cui il tragico scherzo che costituisce l'essenza dell'amore venga espresso con tanto rigore, sia diventato formula così terribile come nell'ultimo grido di don José con cui si conclude l'opera:

Sì! Io l'ho uccisa,

- io la mia adorata Carmen!

Una simile concezione dell'amore (l'unica che sia degna del filosofo) è rara: fa distinguere un'opera d'arte fra mille. Infatti in complesso gli artisti si comportano come tutti gli altri, addirittura peggio essi fraintendono l'amore. Anche Wagner lo ha frainteso. In amore credono di essere disinteressati perché vogliono il vantaggio di un altro essere, spesso contro il loro proprio vantaggio. Ma in cambio vogliono possedere quell'altro essere...

Persino Dio qui non fa eccezione. E’ lontano dal pensare «che ti importa, se ti amo?» diventa terribile, se non è riamato. L 'Amour - con questo detto si ha dalla propria parte la ragione, tra gli dèi e tra gli uomini - est de tous les sentiments le plus égoiste, et, par conséquent, lorsqu'il est blessé, le moms généreux (B. Constant).

Nietzsche contra Wagner. Documenti di uno psicologo (1889)

Torino, Natale 1888

Wagner apostolo della castità

2. Tra sensualità e castità non esiste necessariamente opposizione; ogni buon matrimonio, ogni sincero affare di cuore sono al di sopra di questo contrasto. Ma nel caso in cui tale opposizione effettivamente esiste, non occorre per fortuna che sia un'opposizione tragica. Ciò dovrebbe almeno valere per tutti i mortali di buona costituzione, di temperamento gaio, che son lungi dall'annoverare senz'altro fra gli argomenti contrari all'esistenza il loro labile equilibrio tra angelo e petite bête i più fini, i più chiari, come Hafis, come Goethe, hanno visto in esso persino un'attrattiva in più... Proprio tali contraddizioni seducono all'esistenza...

Lo psicologo prende la parola

2. La donna vorrebbe credere che l'amore possa tutto è questa la sua vera superstizione.

Ah, chi conosce il cuore indovina quanto povero, derelitto, presuntuoso, fallibile sia anche l'amore migliore e più profondo quanto esso distrugge invece di salvare…